Fix you

La cassa aperta di un orologio da taschino

― Hello?

Nonostante sia pieno giorno, nella piccola bottega non entra molta della intensa e calda luce esterna: le finestre sono per la maggior parte oscurate da pannelli di legno, e i raggi che filtrano creano dei giochi di riflessi ed ombre che sono sufficienti, comunque, ad illuminare l’ambiente.

L’ambiente è caldo e carico di oggetti, che pendono appesi alle travi del soffitto, così basso che potresti toccarlo con la mano, se ti alzassi sulle punte dei piedi. Attrezzi, ingranaggi, corde, ruote e telai di biciclette, cavi di ogni tipo fanno compagnia a mucchi di oggetti accatastati su ogni ripiano disponibile: vecchi elettrodomestici, giocattoli, pesino qualche televisore occupano ogni centimetro libero su mensole, tavoli e mobili, molti dei quali ammaccati o cannibalizzati di particolari, come una maniglia o un intero cassetto.

Sul fondo della bottega appare, come un’oasi nel deserto, un’area ben illuminata da diversi e discreti faretti sul soffitto, e al centro una elegante scrivania in legno, di quelle con il piano verde, le gambe tutte intarsiate, e quella immancabile lampada con il paralume di vetro verde, rigorosamente spenta. Sul piano della scrivania, completamente privo di polvere, si notano vari strumenti come piccoli cacciaviti, quasi perfettamente allineati ai lati di un sottomano in pelle nera, e un’altra lampada, questa volta più moderna e minimale, che con il suo braccio estensibile di metallo grigio permette una illuminazione di precisione. Dietro la scrivania una grande cassettiera, quasi come quelle delle farmacie, e una imponente sedia in legno e pelle nera.

Sulla sedia, ricurvo sul piano di lavoro, siede un uomo con folti capelli bianchi, assorto nel suo riparare un piccolo aggeggio metallico e nell’ascoltare la musica prodotta da un vecchio giradischi, appoggiato su un mobiletto a lato della cassettiera. Gershwin, Rapsodia in blu.

― Hello?

L’uomo, richiamato alla realtà da quella voce, si raddrizza, appoggia le pinzette che aveva in mano e si toglie il monocolo.

― Sì?

Di fronte a lui, dall’altra parte della scrivania, una giovane ragazza con i capelli rossi tiene un fagotto di stoffa tra le mani, come se contenesse qualcosa di prezioso. Una volta ottenuta l’attenzione dell’uomo, fa un passo avanti per appoggiare il fagotto sul piano della scrivania, e ne scosta i lembi di stoffa bianca fino a esporne il contenuto.

― Can you fix this?

― Che? ― risponde l’uomo con aria interrogativa.

La ragazza gli fa cenno di guardare quanto ha appoggiato sulla scrivania. L’uomo allora si sporge di quanto basta per notare, all’interno di quel fazzoletto, quelli che paiono i resti di un orologio da taschino. Uno di quelli belli, antichi, uno di quelli che deve aver avuto un brutto incidente, visto lo stato.

L’uomo fa un sospiro, a metà tra il triste e il dubbioso. Che è esattamente lo stato in cui si trova: tra il triste (per quell’orologio) e il dubbioso (per le possibilità di ripararlo).

― Can you fix this? Please.

― Io non lo capisco, l’inglese, ma se mi sta chiedendo di ripararlo…  sì, lo riparerò. ― replica annuendo.

― Can you really? ― dice lei, con un sorrisone e gli occhi lucidi.

L’uomo fa un altro sospiro. Anche se lui, l’inglese, proprio non lo parla, riesce ugualmente a capire il senso di ciò che quella ragazza gli sta dicendo. E si sente una bella responsabilità sulle spalle: lì, chiuso all’angolo da quel sorrisone e da quegli occhi lucidi, impossibilitato a comunicare tutte le sue incertezze.

Sposta l’aggeggio che stava riparando e solleva delicatamente il fazzoletto fino a posizionarlo perfettamente al centro della scrivania. Allarga un po’ i pezzi, come per accertarsi che non manchi nessun pezzo fondamentale, facendo rapidamente due calcoli a proposito delle proprie capacità e del livello di quella richiesta.

― Sì, lo riparerò. ― Ripete, annuendo di nuovo e con un tono più deciso.

[Immagine: A. Worner, Time, time, time, what has become of me?, CC-By-SA]

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